Dalla medicina narrativa fino alle fiction e alle campagne d’interesse sociale: non temere la verità della malattia e raccontare la sofferenza fisica, sociale, interiore delle persone è la strada scelta per riavvicinare e coinvolgere il pubblico.
La voce dei pazienti: chi vive la malattia diventa il soggetto delle campagne, che raccontano un approccio attivo alla malattia, dal punto di vista del malato e con testimonianze autentiche.
Nella comunicazione in medicina oggi la vera sfida, che sta diventando realtà, è affrontare il tema della sofferenza fisica entrando in empatia con i pazienti e non più osservandoli dall’esterno con commiserazione. Si abbandonano progressivamente i cliché legati a questioni scottanti – come il percorso di diagnosi, le fasi della cura e la morte – in favore di una visione più raffinata e calata sui veri protagonisti della sofferenza. È il loro punto di vista, il loro modo di viverla che interessa. Per accendere i riflettori su una malattia, già da tempo, le campagne promosse dalle associazioni e sostenute dalle aziende farmaceutiche hanno iniziato a dare voce ai pazienti, a permettere loro di raccontarsi attraverso diversi canali: dai siti dedicati alle pagine social.
Un esempio attuale di questo cambiamento di rotta è la campagna sociale “Voltati.Guarda.Ascolta” promossa da Pfizer e sostenuta da Europa Donna e Fondazione AIOM, che ha raccolto decine di storie e testimonianze di donne con tumore al seno metastatico, tema a lungo “indicibile” nelle campagne di comunicazione e sui media.
Una scelta – quella di dare voce alle pazienti – nata non solo dall’obiettivo di rompere il muro di silenzio che circonda questa malattia, ma anche da quello di far emergere sentimenti ed emozioni di queste pazienti rendendole protagoniste e “soggetto” e non più “oggetto” di una campagna.
E se prima la retorica del “dolore che rende forti” si sovrapponeva alla vera esperienza dell’individuo sofferente, oggi – leggendo le storie di malati cronici o gravi – emerge un’incredibile energia. Una capacità di autorigenerarsi, di ritrovare l’amore per la vita proprio nel momento in cui tutto sembra perso. Questo approccio positivo e attivo alla malattia non è più uno stereotipo imposto dall’alto, ma una testimonianza autentica e per questo ancora più potente.
Cade il velo dell’indifferenza: una narrazione efficace della sofferenza porta chi non la vive a conoscerla e a trovare la speranza nel dolore.
Spostiamo il punto di vista da chi racconta la storia a chi ne diventa testimone. Che impatto ha uno storytelling della sofferenza sulle persone che non stanno vivendo quel dramma? In altre parole, cosa porta di buono nella nostra società? Citando Freud possiamo dire che «[…] l’uomo felice non ha bisogno di fantasticare, ma apprezza le storie in cui un infelice racconta come ha fatto a diventare felice». Togliersi di dosso il velo dell’indifferenza, cercare una fonte di luce in quello che sembra essere buio e, perché no, riuscire a trovare uno spunto ironico anche nel dolore: questa capacità di rielaborazione collettiva è un processo benefico da ogni punto di vista. Ed ecco spiegato il successo internazionale della fiction iberica Polseres vermelles – conosciuta in Italia come Braccialetti rossi – ispirata alla storia vera dello scrittore Albert Espinosa che, malato di cancro per dieci anni, è riuscito a guarire e ha poi raccontato la sua esperienza di giovane malato in un libro. La fiction ha debuttato nel 2011 in Spagna per poi essere replicata in altri paesi europei. Milioni di persone hanno seguito le vicende semiserie di un gruppo di adolescenti ricoverati in ospedale per patologie gravi. Un risultato sorprendente che molto ci dice sull’importanza di costruire una storia ben scritta, efficace e priva di luoghi comuni.
La sofferenza è una storia che ci appartiene e la resilienza passa attraverso il racconto del proprio dolore.
Se c’è una parola che più di tutte spopola nei social network, questa è certamente “resilienza”. La prima accezione che ne dà il Garzanti è “proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi”, per poi annoverare il significato sociale di questo termine, che ormai identifica “la capacità di resistere e di reagire di fronte a difficoltà, avversità, eventi negativi”.
Già nel 2010 Rosalba Miceli – sulle pagine de La Stampa – si interrogava sul successo mondiale dei libri del neuropsichiatra Boris Cyrulnik, coordinatore del gruppo di ricerca internazionale “Identità Culture e Resilienza” con sede a Parigi. In particolare, la sua riflessione si concentrava sul saggio “Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche”. Riporto un passaggio illuminante della sua analisi: «Allora: chi sono Pierrot, Emilie, Mugabo e gli altri? I loro nomi non contano, sono esseri umani che l’impatto del trauma ha dapprima trasformato in spaventapasseri. Bambini, in massima parte, che non potendo sottrarsi alla tragedia, hanno immaginato di essere diventati degli spaventapasseri, persone spaventate che spaventano anche gli altri, a volte immobili quasi senz’anima e apparentemente senza emozioni, in una agonia psichica che somiglia alla morte. […] Se è vero che per innescare il processo di resilienza contano alcune risorse individuali (il rifiuto del “ruolo della vittima” nonché dell’odio, del rancore, della vendetta), sono importanti anche le storie dell’ambiente familiare e culturale che circonda il ferito, ciò che si dice, come viene detto. Verosimilmente alcune società favoriscono la resilienza tutelando il ferito nel nuovo percorso di crescita (l’invito alla parola, il sostegno affettivo, l’aiuto sociale) mentre altre la inibiscono sul nascere (attraverso la costrizione al silenzio, il pregiudizio, il rimprovero o la condanna, l’abbandono), raccontando in modo diverso la medesima tragedia.
[…] La lacerazione può ricucirsi più agevolmente in un contesto familiare e culturale che accetta la persona con la sua ferita. Il dolore muto si trasforma nella rappresentazione del dolore, un dolore che ha un inizio (e forse anche una fine), fino ad essere narrato come una storia che appartiene, che diventa accessibile a se stessi e agli altri. Racconto di sé che racchiude e da cui si diramano infiniti racconti a mano a mano che la storia acquista senso e significato. E questa nuova rappresentazione può cambiare il sentimento che si prova per se stessi, dalla vergogna fino all’orgoglio.»
“La verità rende liberi, l’imperfezione rende veri”: la rivoluzione della verità rende incisiva la comunicazione dei brand che riescono a raccontare anche la sofferenza con trasparenza, delicatezza e sensibilità.
Allarghiamo ancora il nostro sguardo. Della sofferenza fisica si può parlare in modo preciso, puntuale, perché ha una sua linea temporale scandita da esami, controlli medici, diagnosi drammatiche o guarigioni. Ma c’è qualcosa di molto più difficile da esprimere: la sofferenza interiore. Quella di chi convive da sempre con malesseri psicologici e depressione, di chi non ha una casa o un lavoro, di chi vive accanto a una persona malata, di chi sta facendo un viaggio lungo e doloroso per sfuggire alla morte, alla guerra, alla povertà. Questi sono solo alcuni dei temi che ci toccano più da vicino nel vivere contemporaneo, ma la lista delle “sofferenze private” è potenzialmente infinita.
La campagna “Chiedilo a loro” della CEI per l’8xmille alla Chiesa Cattolica (attiva dal 2012) è un altro esempio di come il racconto dei sofferenti e degli ultimi, proposto nella sua forma più intensa, possa toccare la sensibilità di chiunque e restare impresso nella memoria per molto tempo. Chi fa comunicazione, nei ruoli strategici come in quelli creativi, è chiamato a un serio lavoro di immedesimazione e di ascolto, per entrare in un nuovo universo di desideri, bisogni, speranze. È proprio lì che sta crescendo un pubblico molto più informato e critico rispetto al passato. Trasparenza, delicatezza, sensibilità nel comunicare sui social portano i piccoli brand a diventare grandi e i grandi brand a diventare grandissimi. Al contrario, la distanza che alcune aziende si ostinano a mantenere rispetto ai propri target e alla realtà li rende fuori tempo e fuori luogo. Non bisogna temere la verità, perché solo lei può convincere qualcuno a fare scelte che non avrebbe fatto prima. E se non abbiamo paura del dolore, sarà il dolore ad aver paura di noi.
Agnese Petturiti
Senior copywriter, autrice, consulente creativa, lavora da 11 anni nel settore pubblicitario. Insegna advertising e copywriting presso AANT – Accademia delle arti e delle nuove tecnologie di Roma. È specializzata in below the line, advertising crossmediale e corporate storytelling. Da due anni collabora con ProFormat Comunicazione come freelance, progettando campagne di medicina narrativa e divulgazione scientifica.